In particolare ..........

Acli Colf è un'associazione rivolta alla difesa, tutela e promozione delle figure professionali che si occupano di assistenza familiare.


Le Acli Colf da Oltre 65 anni operano per il riconoscimento del valore sociale dei lavoratori che si prendono cura delle famiglie affinché si possa costruire insieme un welfare a colori che riconosca a tutti gli assistenti familiari, immigrati e non, gli stessi diritti degli altri lavoratori italiani.

La giurisprudenza nel settore del lavoro domestico

Senza nessuna ambizione di volere rendere esaustiva l'illustrazione delle pronunce emesse in questi ultimi anni dal Giudice del lavoro in tema di rapporti di collaborazione domestica, evidenziamo qui di seguito alcune sentenze che a nostro parere possono delineare i principi fondamentali della materia, con l'impegno di aggiornare questa "miscellanea" ogni volta che se ne presenti l'occasione:


La legge speciale 2 aprile 1958, n. 339, qualifica come rapporto di lavoro domestico quello nell’ambito del quale il lavoratore presta la propria opera per il funzionamento della vita familiare. Può dunque dirsi che il connotato della subordinazione è connaturale alla tipicità della prestazione domestica, quando essa abbia i connotati della continuità e della vincolatività. App. Roma Sez. lavoro, 14/06/2007

La normativa contenuta nell'art.33 della L. n.189/2002 consente la regolarizzazione del rapporto di lavoro di un solo domestico per nucleo familiare; non può dunque essere accolta la suddetta richiesta per più di un'unità; il vizio derivante dalla domanda riferita a più lavoratori può essere sanato, rinunciando a chiedere l'emersione del rapporto per i domestici eccedenti l'unità (cfr. TAR Puglia-Lecce, III, ord. n.334 del 2005).
T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, 29/01/2007, n. 195

Ai fini della richiesta di permesso di soggiorno di cittadina extracomunitaria, qualunque documento attendibile per provenienza e contenuti potrebbe fornire la prova dell'attività di lavoro domestico.
Cons. Stato Sez. VI, 03/03/2007, n. 1024

In merito alla legge che punisce l'assunzione di cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno il "datore di lavoro" non è soltanto l'imprenditore o colui che gestisce professionalmente un'attività di lavoro organizzata, ma anche il semplice cittadino che assume alle proprie dipendenze una o più persone per svolgere attività lavorativa subordinata di qualsiasi natura, come nel caso di collaboratrici domestiche o badanti. (Cass. pen. Sez. I, 04/04/2003, n. 25665)

La condotta di favoreggiamento a fini di lucro della permanenza di cittadine polacche nel territorio dello Stato a scopo di avviamento al lavoro di badanti costituisce il delitto di cui all'art. 12, comma 5, D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286, pur se da data successiva alla commissione della condotta incriminata risulti prevista la libera circolazione dei cittadini polacchi nell'ambito dei Paesi dell'Unione europea.
(Cass. pen. Sez. I, 11/01/2007, n. 1815)

Al rapporto di lavoro domestico non è applicabile la tutela prevista dagli articoli 1 e 2 della legge 604 del 1966, come modificata dalla legge 108 del 1990, con la conseguenza che i lavoratori che si trovano in tale area contrattuale, sono licenziabili "ad nutum", anche in assenza di giusta causa o giustificato motivo, e non hanno diritto né alla reintegra prevista dall'articolo 18 della legge 300 del 1970, né al risarcimento del danno previsto dall'articolo 8 della legge 604 del 1966
( Trib. Bologna Sez. lavoro, 26/05/2004)


La  cosciente  e  vantaggiosa  adesione  per lungo tempo, dall'inizio della  costituzione  del rapporto, dei lavoratori di godere il riposo settimanale  dopo  sette giorni di lavoro, ma con il godimento di due riposi consecutivi, mentre consente ai medesimi di godere del riposo, qualche  volta,  anche  di  domenica  e di cumulare così cinquantadue riposi  annuali, costituisce prassi legittima in considerazione della necessità  quotidiana del servizio di pubblica utilità della nettezza urbana;  tale  concordata  procedura  costituisce  un uso normativo o legale  di  cui all'art. 8 delle disposizioni preliminari premesse al codice  civile  ed ha valore vincolante in armonia con l'art. 2243 c. c., per cui nella specie non spetta alcun compenso per preteso lavoro straordinario. 
(Pret. Barletta, 10 dicembre 1981Milillo c. Soc. Langione) 

Attesa l'applicabilità  al rapporto di lavoro domestico della tutela della   maternità  prevista  dall'art.  2110  c.c.,  anche  per  tale rapporto  di  lavoro,  in  occasione  della maternità, deve ritenersi sussistente il  divieto  di licenziamento  per  un periodo che, non  essendo  applicabile    la  l. n. 1204 del 1971 (non estensibile in toto  allo speciale rapporto delle collaboratrici familiari in quanto presupponente  un'organizzazione  del  lavoro capace di consentire la sostituzione  per  lunghi  periodi  della lavoratrice in gravidanza e puerperio),      le  convenzioni  internazionali  in  materia  (non direttamente   operanti  atteso  il  rinvio,  in  esse contenuto, a interventi  complementari  del  legislatore  nazionale), dovrà essere individuato  dal  giudice che, in mancanza di usi normativi e in caso di non applicabilità del contratto  collettivo  di  categoria, determinerà  equitativamente  le  modalità  temporali  del divieto di licenziamento  della  lavoratrice domestica in maternità, definendo i diritti  e  gli  obblighi  delle parti durante il periodo in cui tale divieto  sia ritenuto operante; legittimo parametro di riferimento di tale  giudizio  equitativo, per la sua coerenza con le norme della l. n.  1204  del 1971 applicabili anche alle lavoratrici domestiche, può essere individuato in quel periodo (due mesi prima e tre mesi dopo il parto)  in  cui  è  vietato  adibire  al  lavoro tutte le lavoratrici dipendenti,   riconoscendo  alle  stesse  una  indennità  giornaliera adeguata  alla  retribuzione,  indennità  corrisposta, nel caso delle collaboratrici familiari, direttamente dall'Inps. 
(Cass. civ., sez. lav., 22 giugno 1998, n. 6199);


Anche per il lavoro domestico vale il principio della non necessità della presentazione preventiva di certificato medico attestante la data presunta del parto nonchè il principio secondo cui il licenziamento della lavoratrice domestica irrogato durante il periodo di comporto per maternità è nullo e non solo temporaneamente inefficace. 
(Trib. Roma, 02/12/1998 Zapala c. Mattioli e altri)

Attesa l'applicabilità al rapporto di lavoro domestico della tutela della maternità prevista dall'art. 2110 c.c., anche per tale rapporto di lavoro, in occasione della maternità, deve ritenersi sussistente il divieto di licenziamento per un periodo che, non essendo applicabile nè la l. n. 1204 del 1971 (non estensibile in toto allo speciale rapporto delle collaboratrici familiari in quanto presupponente un'organizzazione del lavoro capace di consentire la sostituzione per lunghi periodi della lavoratrice in gravidanza e puerperio), nè le convenzioni internazionali in materia (non direttamente operanti atteso il rinvio, in esse contenuto, a interventi complementari del legislatore nazionale), dovrà essere individuato dal giudice che, in mancanza di usi normativi e in caso di non applicabilità del contratto collettivo di categoria, determinerà equitativamente le modalità temporali del divieto di licenziamento della lavoratrice domestica in maternità, definendo i diritti e gli obblighi delle parti durante il periodo in cui tale divieto sia ritenuto operante; legittimo parametro di riferimento di tale giudizio equitativo, per la sua coerenza con le norme della l. n. 1204 del 1971 applicabili anche alle lavoratrici domestiche, può essere individuato in quel periodo (due mesi prima e tre mesi dopo il parto) in cui è vietato adibire al lavoro tutte le lavoratrici dipendenti, riconoscendo alle stesse una indennità giornaliera adeguata alla retribuzione, indennità corrisposta, nel caso delle collaboratrici familiari, direttamente dall'Inps. 
(Cass. civ. Sez. lavoro, 22/06/1998, n. 6199 Vivoli c. Marasigan) 

In merito agli infortuni sul lavoro segnaliamo che gli addetti ai servizi familiari e domestici sono esclusi dalla legge di prevenzione e protezione ex D. Lgs. n. 626 del 1994. Ciò però non comporta l'abrogazione implicita delle previsioni legislative in tema di infortunistica che comunque restano pienamente vigenti. 
(Cass. pen. Sez. IV, 14/08/2004, n. 34464).

Quanto al danno patito a causa di un infortunio sul lavoro la giurisprudenza della Suprema Corte raffronta la posizione sociale di una casalinga in comparazione con quella di una colf affermando che il danno subito da una casalinga a seguito di un incidente stradale può essere determinato in misura superiore al reddito percepito da una collaboratrice familiare (colf) di prima categoria. Infatti la cassazione ha rilevato che la maggiore ampiezza dei compiti svolti dalla casalinga nella sua veste di moglie e madre, nonché la sua funzione di guida in seno al nucleo familiare, comportano un impegno di livello superiore a quello della collaboratrice domestica. 
(Cass. civ. Sez. III, 22/11/1991, n. 12546)

Peraltro anche chi svolge attività domestica, sia nell'ambito di un nucleo familiare, legittimo o basato su una stabile convivenza, che soltanto in favore di se stesso, benché non percepisca un reddito, svolge un'attività suscettibile di valutazione economica e può subire un danno patrimoniale in conseguenza della riduzione della propria capacità lavorativa, che, se provato, è risarcibile autonomamente rispetto al danno biologico. 
(Cass. civ. Sez. III, 20/10/2005, n. 20324)

Nel caso in cui un contratto di comodato gratuito per l'occupazione di un appartamento, concluso tra il proprietario dello stesso e un collaboratore domestico, preveda espressamente la cessazione del rapporto di comodato nell'ipotesi di risoluzione del contratto di lavoro in essere tra le parti, al verificarsi di quest'ultima condizione il proprietario ha il diritto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1809, comma 1, c.c., di riottenere l'immobile, libero da persone e cose. 
(Trib. Gallarate, 31/03/2005)

Nel rapporto di lavoro domestico il corrispettivo in danaro non è sempre l'unica componente della prestazione alla quale il datore di lavoro è tenuto nei confronti del lavoratore poiché a volte le parti concordano nel volere che anche il vitto e l'alloggio siano dovuti a compenso del lavoro prestato e con carattere di continuità; in tali casi, ovviamente, non può essere disconosciuta la natura retributiva del vitto e dell'alloggio, rappresentando essi parte del corrispettivo convenuto e dovuto per il lavoro prestato. Del loro equivalente deve quindi tenersi necessariamente conto ai fini della determinazione della misura complessiva della retribuzione.
(Corte cost., 06/06/1973, n. 72)

Il   rapporto   di   lavoro   domestico  non  cessa  alla  morte  del capo-famiglia, bensì  continua senza interruzione qualora alcuno dei componenti  della  famiglia manifesti la volontà di far proseguire lo stesso  rapporto  di  lavoro  domestico e ad essa faccia riscontro la corrispondente volontà del lavoratore.
(Cass. civ., 28 agosto 1980, n. 4980)

licenziamento ad nutum;  non sussiste il diritto al risarcimento del danno
L'individuazione dell'esistenza di un rapporto di lavoro domestico si basa su parametri individuati dall'interpretazione giurisprudenziale. La sussistenza di un rapporto di lavoro domestico comporta, nel caso di recesso, l'applicazione della disciplina del licenziamento ad nutum, con l'unica limitazione rappresentata dall'obbligo del preavviso. Non sussiste pertanto obbligo a carico del datore di lavoro di risarcire il danno alla lavoratrice licenziata.
(App. Torino, 11/06/2003- Dininno c. Casa Beata Vergine Maria Consolatrice Lavoro nella Giur., 2004, 87)

licenziamento ad nutum (segue);  non sussiste il diritto alla reintegra lavorativa
In forza dell'articolo 4 della legge 108 del 1990, al rapporto di lavoro domestico non è applicabile la tutela prevista dagli articoli 1 e 2 della legge 604 del 1966, come modificata dalla legge 108 del 1990, con la conseguenza che i lavoratori che si trovano in tale area contrattuale, sono licenziabili "ad nutum", anche in assenza di giusta causa o giustificato motivo, e non hanno diritto né alla reintegra prevista dall'articolo 18 della legge 300 del 1970, né al risarcimento del danno previsto dall'articolo 8 della legge 604 del 1966. Ove al rapporto di lavoro, inerisca un godimento di un immobile, una volta intervenuto il licenziamento, sia esso legittimo o illegittimo, il lavoratore è tenuto alla restituzione dell'immobile, poiché il rapporto in questione non è suscettibile di essere ripristinato in forza di provvedimento giudiziale. 
(Trib. Bologna Sez. lavoro, 26/05/2004 – fonti guida al Diritto, 2004, 34, 75)

Deve essere riformata la sentenza di primo grado nella parte in cui l'Autorità Giudicante disponga, nel condannare la convenuta al pagamento della somma a titolo di 13a mensilità e t.f.r., la detrazione dal suddetto importo dell'indennità sostitutiva del preavviso, qualora nel corso del giudizio non sia stato provato nulla circa le modalità di cessazione del rapporto di lavoro e sulle eventuali cause di esso.
(App. Roma Sez. lavoro, 02/09/2005)